Un curioso caso di autodeterminazione: Rachel Dolezal (e Caitlyn Jenner)

6166028742_e7f5c07638Fino a dove si può spingere l’autodeterminazione?

Qualche settimana fa negli Stati Uniti è successa una cosa bizzarra: si è scoperto che l’attivista per i diritti degli afroamericani Rachel Dolezal in realtà non è nera ma bianca, con antenati tedeschi e cechi e tutti quanto. C’è chi pensa che l’abbia fatto per motivi opportunistici o come sottolinea Kareem Abdul-Jabbar, partendo dal presupposto che la razza non esista, quello che Dolezal ha fatto è stato scegliere una cultura di appartenenza. Pur con pratiche e in modi diversi rispetto al passing di genere, esiste un passing razziale, ma non voglio entro nel merito della questione razziale degli Stati Uniti (che tanto prima o poi dovremmo occuparci seriamente di quella europea).

Nel ciclone Dolezal non poteva che finirci anche Caitlyn Jenner, come ad esempio in questo articolo dove le due donne vengono paragonate in quanto fraudatrici e disoneste riguardo la propria identità, dove la prima ha fatto credere di essere afroamericana e la seconda di essere una donna. La differenza tra le due situazioni è ovvia, Jenner non finge di essere una donna, il suo percorso di transizione è stato comunicato ovunque, come se fosse la prima donna transessuale al mondo (poi certo che non lo è, ma forse è il primo personaggio pubblico e mediatico ad aver fatto coming out e iniziato così pubblicamente il suo percorso, almeno negli ultimi anni).

Come dice Julia Serrano in Whipping girl, uno dei concetti sbagliati sul transessualismo è proprio quello dell’inganno. Le persone transessuali sono spesso percepite come fraudolente nei confronti degli altri, in particolar modo le persone transessuali MtF in quanto tra le caratteristiche che contraddistinguono il femminile ci sono “weakness, helplessness, fragility, passivity, frivolity, and artificiality”.

Proprio l’artificio, trucco e parrucco, sta alla base del fantasma dietro l’autodeterminazione e del passing, forse la paura più grande, e quindi dell‘inganno. Sono stati girati decine di film, in genere commedie, che mettono in scena il travestimento e il passing come sotterfugio e scappatoia e tranello. Chi si autodetermina, e che quindi costruisce la propria identità anche e, spesso, soprattutto in contrasto con la propria condizione biologica. L’esempio più chiaro di questo atteggiamento è la classica sorpresa nelle mutande. In questo senso si riduce sempre tutto alla base biologica, praticamente un’ossessione, maschio, femmina.

Inoltre il passing presuppone non solo che ci sia un modello di riferimento a cui aspirare, ma anche che ci siano dei modelli di comportamento e di reazione a questo modello. Passare per il genere prescelto è un modo per assicurarsi un determinato tipo di reazione e interazione nei propri confronti. Ci sono modelli privilegiati rispetto ad altri. Passare per bianchi, per uomini, per ricchi offre dei vantaggi.
Il passing per le persone MtF è invece anche un privilegio negativo, si passa per donne, anche per non passare come transessuali o transgender e quindi come uomini deviati o ingannatori. Tutto questo in una visione binaria, cioè o masculi o fimmine, degli esseri umani.

Quando si parla di autodeterminazione sento spesso reazioni del tipo “Eh, ma se io dico di essere un cavallo con sei zampe che caca delle scatole di cereali al miele?” che è una dimostrazione per assurdo, un’argomentazione che in certi casi può funzionare ma in altri no. La base dell’autodeterminazione dovrebbe essere l’affermazione positiva di sé e il non ledere gli altri, anche se questo punto c’è gente che si reputa molto sensibile (in senso negativo) alle autoaffermazioni altrui. Il caso Dolezal ne è un esempio, fino a che punto si può spingere l’autodeterminazione? Ora io sinceramente non conosco benissimo i particolari della sua storia, certo è che dirsi neri vuol dire accollarsi un passato e una storia e una cultura di un certo tipo, così come autodeterminarsi uomini o donne o queer vuol dire accollarsi un passato e una storia e una cultura di un certo tipo. E’ un fatto personale, ma non può non essere anche sociale. Autodeterminarsi in quanto uomo e in quanto donna, ridefinisce il concetto il concetto di uomo e di donna? In parte sì e in parte no. Forse farlo in maniera esclusiva è appunto una lesione altrui, così come farlo in maniera inclusiva, cioè ci sarà sempre qualcuno che non è d’accordo.

Grazie a Elena per l’ispirazione.

Bruce e Caitlyn Jenner hanno lo stesso cervello?

caitlyn-jenner-instagramLa settimana scorsa Repubblica ha pubblicato “What makes a woman?”, un articolo del New York Times, scritto dalla giornalista Elinor Burkett, e tradotto col titolo di “Donne e uomini hanno lo stesso cervello? Il dibattito che divide femministe e transgender”.

Negli Stati Uniti sulla transizione di Caitlyn Jenner si è scritto molto, Bruce Jenner è stato un campione olimpico e un personaggio pop, soprattutto un personaggio pop, talmente pop che si parlò di lui in una puntata dei Griffin.

In Italia non ha avuto ovviamente la sua storia non ha avuto avuto la stessa risonanza, così come i dibattiti sulle questioni di genere e transgenere sono totalmente esclusi da qualsiasi ambito che non sia accademico o antagonista o di nicchia.

Insomma qual è il senso di pubblicare, così, dal niente, un articolo del genere? In quale contesto e in quale dibattito pensavano di voler inserire questo contributo?

Innanzi tutto il titolo. Cosa fa di una donna una donna è un interrogativo molto diverso da Donne e uomini hanno lo stesso cervello?
Cosa fa di una donna una donna è una domanda che si riferisce alla definizione della donna in quanto tale, e non in relazione all’uomo e in un mondo di uomini, ed è anche una domanda retorica.

Donne e uomini hanno lo stesso cervello?, nonostante sia la frase di apertura dell’articolo, ha tutto un altro significato, potrebbe presupporre un contenuto scientifico, fa soprattutto leva sulla curiosità dei lettori e invece parla di tutt’altro. A me non sembra gran giornalismo.

La seconda parte del titolo parla invece di un dibattito, dove invece dibattito non c’è, è un articolo di opinione, non un riassunto di uno scambio scritto da un giornalista esterno a essa. Un opinione anche molto netta.
Il succo di tutto l’articolo è che “Chi non ha vissuto la propria intera vita da donna non dovrebbe arrivare a definire noi donne. Perché questo è quanto gli uomini fanno da fin troppo tempo.”
Nonostante dica che abbia lottato contro il binarismo di genere quello che suggerisce è che Caitlyn Jenner sia un uomo o quantomeno un ex uomo e che non abbia il diritto di definire cosa sia femminile e cosa no.
Quando Caitlyn afferma che “”Il mio cervello è più femminile che maschile”” Burkett lo intende come un editto assoluto sul femminile.
Dove Burkett vede un proclama pubblico di cosa sia e non sia il Femminile, io ci vedo un abile lavoro di scrittura televisiva, quando Jenner esprime il suo desiderio, non solo simbolico, dello smalto e lo mostra nel servizio fotografico di Annie Leibovitz, la giornalista ci trova l’ennesima riproposizione degli stereotipi femminili.

Caitlyn è diventata una vamp, ma è anche un gioco, un servizio fotografico per una rivista di moda, una performance. Caitlyn è un personaggio dello spettacolo e in quanto tale deve sottostare ad alcune regole e altre ne fa proprie, tanto che avrà un reality tutto suo.

Ovviamente in quanto personaggio televisivo Jenner diventa anche un simbolo, oltre che di sé, a quanto sembra dal timore di Burkett, di tutte le donne e di tutte le trans.

A parte che Jenner non potrà mai essere il simbolo di tutte le donne e di tutte le trans solo per il fatto di essere bianca e molto molto ricca, la questione è molto controversa e complessa perché coinvolge il discorso della rappresentazione mediatica e dell’immagine e quindi di performance e di preparazione di essa oltre che di femminismo e ruoli di genere e del lavoro femminile e di mestruazioni.

Come sottolinea questo articolo di Abbattoimuri le femministe non possono sostituirsi alla voce delle persone trans. E infatti alla pubblicazione di questa traduzione non è stata seguita, almeno su Repubblica, nessuna replica di queste persone trans. D’altronde chi avrebbe potuto scriverla in Italia? Qualche nome ci sarebbe ma non potrebbero mai arrivare a Repubblica. Inoltre la traduzione ha i soliti errori di concordanza tipo “La retorica del “sono nata in un corpo sbagliato” utilizzata da altri trans non funziona tanto meglio, ed è altrettanto offensiva, dato che ci riduce alle nostre mammelle e alle nostre vagine.”

Sull’essere contro la retorica della nascita nel corpo sbagliato sono d’accordo pure io, ma, torno al punto, proporre al pubblico italiano un contributo del genere, in questo modo è totalmente dannoso, per le persone trans, per il giornalismo, e per la credibilità del dibattito.

Quest’articolo parla di quanto sia importante raccontarsi per non scomparire, e per non spersonalizzarsi, che è esattamente il tipo di retorica degli omofobi e dei transfobi e di tutti gli intolleranti, quello di spersonalizzare l’oggetto della propria intolleranza. L’articolo di Burkett non lo ha fatto nei confronti di Jenner, poiché replica all’enorme copertura mediatica che ha avuto Jenner, dall’intervista/coming out alla copertina di Vanity Fair ma la pubblicazione italiana, decontestualizzata e totalmente piovuta dal cielo sì perché ha isolato una persona/personaggio offrendone un’opinione senza replica.

In ogni caso qualche risposta di autonarrazione c’è stata e questo articolo di Diana Tourjee, pubblicato su Original Plumbing è una bella e sincera testimonianza e pure queste copertine alternative di Vanity Fair.

ormone sei e ormone ritornerai

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In questi quattro mesi non ho scritto praticamente niente. Quasi non ricordo, come spesso mi succede. Che dimentico un sacco di cose, ma poi perché? Perché no?
Quattro mesi e poco più da quando ho iniziato la terapia ormonale. Posso recuperare frammenti che ho scritto su facebook, pensavo fosse la cosa migliore, scrivere e poi raccogliere frammenti, non è detto che lo sia, anzi no.

Mi ricordo un sollievo di aver allontanato il testosterone come fosse uno spirito maligno che mi infestava i genitali e non solo.
Poi ho voluto dare una smorzata al cacciatore (la cacciatrice?) del virile ormone.
A volte mi concentravo sull’aspetto repressivo.

Il virile ormone represso, non è ironico?

Ma non c’era altro modo. Il lato alchemico è ancora sconosciuto, e non ho ancora molta dimestichezza manipolatoria. Mi affido.

Ho perso delle cose?

Può darsi. Ma come posso essere sicura di conoscere tutte le cose che ho perso, se forse nemmeno le conoscevo tutte? Non ho mai fatto un inventario, per fortuna.

Ma erano realmente cose mie? O cose che mi sono arrivate in eredità?

A volte mi guardo e vedo tratti somatici della mia famiglia.
Vorrei non ci fossero, e nascere dal nulla.
Dimenticando, nasco dal nulla.

Ho capito tante cose di me?

Ho scoperto tante cose, tipo l’esistenza dei gattini fuori da internet.

Sono cambiate cose, certo. Sono cambiate cose.
Le pensavo inamovibili, eterne, strutture grottesche.

Se il dito indica la luna, lo sciocco guarda il tapis roulant.

Bilanciare gli sforzi verso l’esterno mi hanno fatto un po’ perdere di vista alcune spinte nonsense interiori, il luna park del perdulbembo.

Adesso, forse, sono soggetta ai cicli lunari, così come ancora i miei sogni che mi portano indietro in territori disagevoli, cioè nel non presente, come se non esistessero gli sforzi e nei miei sogni fossi ancora un ragazzino che non riesce a tenere il punto e lo costringono a partecipare a reality di sopravvivenza in una casa del settecento totalmente allagata, a parcheggiare lontano, a sposarsi con la propria cugina divorziata, a fare viaggi spaziali con gente sconosciuta che litiga sul razzetto.

Poi ci sono io in versione skinhead. Un’altra vita.
Forse peggiore.

Ma è ovvio, penso, da cosciente non riesco a stare dietro ai miei cambiamenti. Ne vorrei di più, di meno, diversi, più intensi. Addentrarmi di più, molte paure sparite, ansie che diosanto com’era possibile vivere così?

Così nella suburra disabitata di un letto.

Dove inizia la mia identità? Dal mio sentire? Dai miei ricordi? Dalla mia anatomia? Dalle mie abitudini? E dove finisce?

Tutto questo, nonostante il risveglio tardo, i miei 31 anni come se fossero, diciamo, le dieci meno un quarto di mattina, che non è tardi tardi ma manco presto, no forse più le nove e venti, che non è presto presto ma nemmeno tardi.
Almeno mi piace crederlo. Ma anche non svegliarmi mai.

Interno/Esterno

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[…] Una frattura ancora più fondamentale è forse quella che separa l'”interno” dall'”esterno”. Una concisa definizione di questo tipo di percezione è nel saggio di Freud Die Verneinung (La negazione):

Espressa nel linguaggio degli impulsi istintualità più antichi, cioè orali, l’alternativa suona così: “Mi piacerebbe mangiare quello”, o “mi piacerebbe sputarlo fuori” oppure, portata a uno stadio più avanzato, “Vorrei prendere questo dentro di me e tenere quello al di fuori di me”… Sarebbe come dire: esso è dentro o fuori di me… Dal punto di vista del piacere originale dell’ego, ciò che è cattivo, ciò che è estraneo all’ego, e ciò che è esterno sono, in primo luogo, identici.

Come abitante di un corpo femminile, queste definizione mi lascia perplessa. I limiti dell’io mi sembrano molto meno nettamente definibili di quanto le parole “interno” ed “esterno” fanno pensare. Io non mi percepisco come una città fortificata in cui certi emissari vengono ricevuti ed altri esclusi. Il problema è molto più vario e complesso. Una donna può essere violentata – penetrata contro la sua volontà dal pene, o costretta a prenderlo in bocca, nel qual caso si tratta senz’altro di un atto di invasione – o, nell’atto amoroso eterosessuale, può accettare il pene o prenderlo in mano e inserirlo nella vagina. Nell’atto sessuale che non sia un semplice “fottere” c’è spesso un forte senso di interpenetrazione, un senso di annullamento delle mura della carne, il desiderio fisico ed emotivo del donarsi reciprocamente, cancellando i confini tra i corpi. L’identificazione con l’orgasmo di un’altra donna come se fosse il proprio è una delle più intense esperienze interpersonali: in simili momenti nulla è all'”interno” o all'”esterno” di me. Anche nell’autoerotismo, il clitoride, organo più o meno esterno, trasmette le sue pulsazioni alla vagina fino all’utero che resta invisibile e intoccato.

Nè durante la gravidanza, ho percepito l’embrione come decisamente interno in termini freudiani, ma piuttosto come qualcosa dentro e parte di me, che si separava da me di ora in ora e di giorno in giorno, preparandosi a diventare un essere a sé stante. All’inizio della gravidanza i movimenti del feto sembravano tremori del mio stesso corpo, e più tardi quelli di un essere imprigionato in me; ma entrambe le sensazioni erano mie, appartenevano al mio senso di spazio fisico e psichico.

Senza dubbio in certe situazioni il bambino nel proprio grembo può essere solo avvertito come corpo estraneo introdotto dall’esterno: un intruso. (Nella sua monografia Maternal Emotions, Niles Newton cita studi sul vomito della gravidanza che sembrano indicare un rapporto non col rifiuto della gravidanza stessa ma delle condizioni del concepimento: rapporti sessuali frequenti e non desiderati e l’assenza di orgasmo.) Eppure anche le donne vittime di stupro spesso sembrano assimilare quel germe di vita, creato con la violenza, non come qualcosa di introdotto dall’esterno ma nascente dall’interno. L’embrione, naturalmente, è entrambe le cose. L’ovulazione avviene indipendentemente dalla fecondazione. Il bambino che porto in grembo per nove mesi non può essere definito né come me né come non-me. Lungi dall’esistere in uno “spazio interiore” le donne sono fortemente e vulnerabilmente sensibili sia all'”interno” sia all'”esterno” perché per noi le due cose sono continue e non opposte. […]

Tratto da “Nato di donna. Cosa significa per gli uomini essere nati da un corpo di donna” di Adrienne Rich. Garzanti, 1977. pag. 61 -62

qui non c’è niente

Facciamo che è tutto uno sgretolarsi delle fiducia in sé, su ogni piccolo brandello. Cosa ho potuto fare se non corazzarmi in un’identità mutevole?

Sembra strana detta così

Ho dei piccoli flash, come se il mio personaggio cambiasse continuamente

Vesto allo stesso modo da anni

come se mi trovassi in una costante improvvisazione, su di un palco lurido.
Procedo come un sistema logico, come un sistema chiuso, ad ogni piccolo feedback che mi viene da fuori e che arriva dentro, dentro non so a cosa perché arrivano feedback anche da dentro ad ancora più dentro. Diciamo un centro di controllo che smista

cosa che faccio spesso: smistare le informazioni

Questi feedback potrebbero essere visivi

tipo adesso questa eccessiva razionalizzazione mi sta facendo saltare la mosca al naso

sguardi fugaci in un riflesso bastardo che mi dicono

oh, caro il mio lei (più raramente, cara la mia lui, perché non avrebbe senso, non avrebbe quel senso di gentilezza che il lei suggerisce, è un lei di cortesia, non un lei di genere) vedi che tu sei così e hai poco da immaginarti/fantasticarti/struggerti

riportarmi coi piedi per terra, sbattermi per terra, con la violenza della forza dell’Ordine (e non del Caos, per dire).

oppure potrebbero essere semplici

(non tanto semplici in realtà)

rigidità strutturali

Hai le spalle curve, i legamenti corti (fa ridere detta così), il ventre globoso, un accenno di scoliosi, varie contratture muscolari, quegli sciami di peli, ma più che altro la legnosità del tronco che si finge ricco di linfa, quando ha già iniziato a mostrare la sua giallosità disidratata, la legnosità del tronco che si finge secco per galleggiare e invece è ricco di sostanze nutritive, quando non di manna o di miele nascosto in favi minuscoli e pregiati o dei funghi che ci crescono sopra, e da qua, dal tuo corpo fatto così com’è, come un intrico di muscoli avvinazzati di nervi, tu quantevveriddio non ne esci, quella è la tua maledizione.

cioè, la mia, parlo di me, come sempre, senza uscirne

E quindi io, o chi per me, non ne esco. Se c’è una disforia è una disforia di movimento, prima che di genere.

Quindi, nel dubbio della mia esistenza, che in fondo credo a tutto quello che mi si dice, poiché è anche questo è un po’ profondo, questi sono segnali importanti che prendo e li coccolo negli anfratti del mio malesserino e dico oh dev’essere così.

Credo a tutto quello che mi si dice, perché la colla che mi sostiene non sempre j’aregge.

Dico questo perché mi sto iniziando a interrogare sulla natura, o forse sarebbe meglio sulla cultura, dei miei blocchi.

Tanto li so, c’è poco da pensarci, mi sembra ridicolo solo dichiararlo.

Se questo pensarmi addosso non portasse i segni del tempo non mi farebbe così rabbia farlo. Sento rabbia, a farlo. Una rabbia che è gommosa.

Una check list

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La mia tendenza a relativizzare tutto, anche a mettere tutto sullo stesso piano e a far diventare praticamente qualsiasi cosa un gioco di parole, mi porta a vivere senza troppi punti fissi, e uno di questi, forse la stella più luminosa e più vicina, è la paura (e poi a seguire tutta la serie di robe che le si accompagnano).

Ed è una cosa della quale mi fido. Mi protegge, mi coccola e non mi lascia mai.

Ed è talmente enorme che è come avere tanti punti fissi, infiniti.

Davvero una gran compagna.

Dico anche che è la paura a far sminuire tutto, a ridurre tutto a un gioco di parole. La lista delle cose che più o meno mi fanno paura è una specie di lista sacra alla quale mi attengo. Una check list che mi percorre. Tutto il resto può perdere significato, ma la paura no. Ogni tanto mi ripeto no-hope-no-fear ma non ci credo nemmeno io, perché sì la speranza l’ho persa, ma la paura no. Se perdessi anche quella, che mi ancora alla realtà, se perdessi anch’essa, che mi limita e mi consiglia.

E se la perdessi?

Appunti a margine di una gif

Una cosa di cui sento parlare spesso è quella cosa che viene chiamata amore. Detta così, proprio scritta in questo modo, sembra scritta da una presenza aliena. Come se non ne sapessi nulla.

Una volta ne sapevo, ma poi eventi su eventi, come onde acide, hanno rosicchiato la mia capacità di comprendere, vivere, sviluppare amore.

Belle parole, mancava “progettare”.

Ho forse superato un punto di non ritorno e varcato la soglia della povertà? Il mio cuore ha perso le sue piume e ha assunto il colorito tipico dei pesci?

Questo è quello che temo.

L’adattarsi al mondo ha dato e ha tolto. Tra le cose che ha tolto è stata questa tenerezza granulosa, tra le cose che ha dato, una maggiore forza.

Per ogni cosa acquisita, ce n’è sempre una che si perde. Per ogni cosa persa, non è detto che ci sia qualcosa che la rimpiazzi. 

Il punto d’inizio comunque è sempre lo stesso: tu non te lo meriti.

Vorrei chiudere qui, rinchiudermi dentro le parole, con una frase a effetto a cui potrebbe seguire un nuovo capitolo che forse non arriverà mai. Lasciare questa frase sospesa nel vuoto, sul bordo di una scogliera e non dover spiegare nulla. Vorrei non dover spiegare nulla.

Immagine

Esercizio #1

imageNotFound

Non riesco a vivere senza immagini. Fumetti, film o fotografie o qualsiasi altro tipo di immagine.
Me le faccio passare davanti in un flusso onirico no stop.

Bombardamento

Ce ne sono di moda, che mi illuminano su possibilità creative, di identità e tutto quanto e che soffondono una femminilità (brutta parola, brutta, non usarla mai più)(ovviamente, è il loro scopo) – lo posso dire – ambita (in senso erotico, creativo, blablabla) e ce ne sono di persone piùomeno transgender.
Attraverso di loro soddisfo un mio bisogno, più bisogni, più richieste, più boccucce da dissetare.
Ma di fatto, concretamente, non lo faccio. Non faccio niente.

Posizione: vicaria

Quelle immagini sono dei piccoli biscottini che mi elargisco. Piccoli biscotti piccole soddisfazioni piccole offerte.
Sono anche piccole possibilità, versioni non ultimate perché non concrete, parziali, in costruzione.

Sì ok, lascio fare

Con le immagini non ci posso parlare, non posso entrarci in contatto né in relazione. Le potrei usare come specchio, giusto quello. Che poi non siano esattamente prove inattaccabili di realtà è un altro discorso.
Dopo questa premessa, forse astratta – lo ammetto ho non pochi timori a parlare di me, ho scritto in punta di piedi, su una scala, senza respirare – l’esercizio da fare è uno: smettere di guardare queste immagini. Toglierle dallo schermo mentale, capovolgere, stropicciarle. Se ci dev’essere un’immagine che mi soddisfa dev’essere solo la mia. Queste immagini sono una fuga in mille direzioni, una nebulizzazione delle energie, uno spostamento del centro mentale. Vedo qualcuno che lo fa, che vive, che fa qualcosa e mi va bene così.

Insomma, il primo esercizio è questo e non so bene quanto ci riuscirò.