Una check list

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La mia tendenza a relativizzare tutto, anche a mettere tutto sullo stesso piano e a far diventare praticamente qualsiasi cosa un gioco di parole, mi porta a vivere senza troppi punti fissi, e uno di questi, forse la stella più luminosa e più vicina, è la paura (e poi a seguire tutta la serie di robe che le si accompagnano).

Ed è una cosa della quale mi fido. Mi protegge, mi coccola e non mi lascia mai.

Ed è talmente enorme che è come avere tanti punti fissi, infiniti.

Davvero una gran compagna.

Dico anche che è la paura a far sminuire tutto, a ridurre tutto a un gioco di parole. La lista delle cose che più o meno mi fanno paura è una specie di lista sacra alla quale mi attengo. Una check list che mi percorre. Tutto il resto può perdere significato, ma la paura no. Ogni tanto mi ripeto no-hope-no-fear ma non ci credo nemmeno io, perché sì la speranza l’ho persa, ma la paura no. Se perdessi anche quella, che mi ancora alla realtà, se perdessi anch’essa, che mi limita e mi consiglia.

E se la perdessi?

Postille all’esercizio #1

Un mese fa scrivevo cose, avevo in mente di scrivere tanti esercizi.

Un conto è scriverli, un conto è seguirli.

Quanto è durato quel proposito che già sapevo che poco sarebbe durato? Una settimana. Avrei voluto scriverne prima, ma un mese mi semba un buon tempo per valutare un esercizio del genere, che appunto è durato una settimana. Perché? Non ce l’ho fatta? Ho ceduto?

Qualcosa c’è stato. C’è stato un distacco dal bisogno di queste immagini. Non so come. La sottile invidia, che poi cela rabbia, ha ceduto il posto, del tutto, alla rassegnazione, al fatto che i margini di cambiamento sono molto bassi, che in fondo le mie resistenze siano la parte più forte di me.

Credo che sia un modo per bastonarmi le gambe, colpire alle giunture, e che sia un modo per deresponsabilizzarsi rispetto alla fatica e all’impegno di una trasformazione (non solo tra generi diversi, ma per essere una persona ehm migliore). E soprattutto di una esposizione.

Alla base c’è la vergogna, continua, perpetua, incessante, bumbumbum. Ma di questo vorrei parlarne in un altro post.

Rimane il fatto, ora, che c’è stato un distacco ma senza un’adesione a qualcos’altro. C’è questo rimanere sospesi. Ma il tempo passa e io temo che non ne uscirò.

Dillo che ti piace, in fondo. La sospensione, il vuoto, il tempo che fai finta che non c’è. Dillo che ti piace.

Una persona mi ha detto che ho due strade:

tenere botta in questa situazione, sapendo che il dolore rimarrà sempre presente/ma in una dose sopportabile/oppure, immergerti nel profondo/nel dolore più oscuro/nuotarci dentro sputando sangue/e allora troverai il posto dove andare.

Le trovo entrambe abbastanza realistiche, così come è realistico che mi tengo sulla prima posizione. Col freno a mano tirato, con un decoro da mantenere. Anni fa una cosa che ci dicevamo con una mia amica era che casa dei miei genitori, dove abitavo, erano gli anni ’50 e solo andandomene potevo vivere nel presente. Gli anni ’50 erano una metafora perfetta, o almeno molto pregnante.

Ormai sono quasi due anni che ho lasciato gli anni ’50, ma credo che in parte non ne uscirò mai. Almeno finché non vado verso la seconda opzione, almeno finché non prenderò l’esercizio #2 (o #3 0 #3945) seriamente, come se fosse una questione di vita o di morte. Anche se spesso la morte (metaforica) è preferibile alla vita (più o meno metaforica).

Vorrei trovare un qualcosa leghi l’inizio e la fine di questi discorso, ma non c’è. O forse sì?