…e ora vediamo chi è una Vera Trans!
Prendo spunto da questo post di Valentina Quando il disprezzo viene dall’interno della comunità transgender per capire il motivo di tanta suddivisione molecolare tra le persone, che non sia solo una caratteristica della fisica ma anche delle menti eterne che abbiamo.
La cosa è complessa, le variabili tante e il mio punto di vista parziale e soggettivo. Ho addirittura delle opinioni.
In cima a tutto, sulla figura geometrica con tutte queste cosette che vado a elencare, che potrebbe essere sia una piramide che un cilindro, le diverse scuole filosofiche alla quale ognuno sceglie di abbracciare anche per dare un senso alla propria condizione transgender. C’è chi frequenta la patologizzazione e chi no. Trovare un senso alla propria condizione non è facile, così come alla propria vita e alla propria dieta.
Dal mio punto di vista la patologizzazione è una condizione creata in laboratorio e figlia prediletta della medicina e del positivismo occidentale. Il termine Transessualità, per dire, è stato coniato solamente nel 1949 in ambito psichiatrico. Prima di allora c’era solo un’indifferenziata umanità considerata ermafrodita che andava più o meno maltratta e vessata e rinchiusa in penitenziari psichiatrici, mortacci loro.
E’ anche un concetto relativamente nuovo, un po’ come apericena, che però pare che debba essere l’unico e il solo e pare anche debbano essere le persone a dover adattare se stesse e il proprio sentire ai protocolli medici e non il contrario, ma i protocolli psichiatrici sono protocolli e quindi non è che possono essere troppo malleabili.
Ci sono modi di transizionare che non comportano l’adesione ai protocolli e nemmeno gli ormoni. Io stessa mi chiedo spesso se io sia in grado di transizionare socialmente (poiché i livelli di transizione sono molteplici) senza prendere ormoni.
Questa divisione tra scuole filosofiche, tra chi si affida alla scienza e chi no (semplificando, anche se non dovrei) è un primo motivo. Il secondo è il binarismo di genere e l’aderenza ai modelli di genere molto definiti, una sottospecie di mai dire banzai dell’essere transgender, dove ci sono classifiche e fazioni che si danno battaglia.
La posta in gioco è essere reputata una Vera Trans.
Le discriminanti sono infinite e sono tipo non essere etero, non volersi operare (pisello = uomo, sempre e per sempre, nemmeno gli esorcismi possono qualcosa), non prendere ormoni, non avere una delle mille caratteristiche che contraddistinguono le Donne d’Oggi. Ci sono modelli femminili e modelli transessuali, e non se ne esce, è come vivere dentro una versione monocroma di Burda. Essendoci dei modelli esteriori ci sono anche delle regole rigide alle quali attenersi. Non sei abbastanza trans suona anche come non sei abbastanza punk, non sei abbastanza elegante, non sei abbastanza a righine violine.
La cultura sessista e misogina dell’Italia si vede anche da questo. L’essere transgender, per me, vuol dire anche avere una visione quasi privilegiata dei generi e dei rapporti tra i generi. (Scrivo che sono transgender e comunque sento ancora piccole fitte di brividi e ansia e gorgonzola). Non è un belvedere, comunque.
L’occhio di bue che ha illuminato le trans portandole alla ribalta da quell’indistizione viziosa di cui parlavo prima da un lato (ci) ha permesso di accedere a trattamenti medici (stavo per scrivere cure, ma non c’è niente da curare) e ci/le hanno ghetizzate e costrette anche alla prostituzione. C’era coesione, c’era comunità, ma con un sottofondo negativo, di protezione verso l’esternobestia e la societàbestia. Ci si trovava insieme sulla strada, ci si prendeva cura una dell’altra. Dalla fine degli anni ’60 c’era anche una cultura e una retorica antagonista rispetto al sistema eterosessista e borghese basato sulla favolosità e altre caratteristiche favolosissime in cui io, però, non mi trovo per niente. Sono sobria come un limone a colazione, ma ne riconosco il senso e la necessità storica. Ora la trovo un po’ superata e anacrostica, anzi mi sembra si vada e si debba andare nella direzione opposta. Verso una differenziazione, che include anche l’individualismo, nei suoi aspetti più beati e più terrificanti, e una normalizzazione, una varietà di approcci e di vite, di idee e affettività.
A questo aggiungo una mancanza di obiettivi comuni, a un livello culturale ed educativo e non solo giuridico. Alla base di tutto ci dovrebbe essere una riflessione teorica. Non è molto invogliante si sa, ma senza non si va da nessuna parte, così come la mancanza di strumenti per interpretare la realtà, non solo quella transgender.
E infine la roba più grossa che è la discriminazione transfobica, la paura tagliagambe per cui molte trans preferiscono non esporsi e starsene per fatti propri e confondersi nella folla (e come biasimarle, come?).
Per concludere…